Una top 5 del 2018 e cosa aspetto nel 2019

Quest’anno ho navigato su un fiume in piena, ho sgomitato in una città affollata dove parlano una lingua incomprensibile, ho scalato le montagne, ho visto villaggi innevati decimati dalla Peste Nera, sono stato in un orfanotrofio infestato, ho messo a posto gli scaffali di un negozietto alienante, ho visitato un’isola piena di stranezze e ho complottato tra i banchi di scuola contro le ingiustizie di una maestra. Solo per citare alcuni dei libri letti quest’anno.
Vuoi vederli tutti? Eccoli.

Mi sono reso conto che le classificazioni di Goodreads non mi vengono incontro quando si tratta di stilare una classifica dei preferiti del 2018. O meglio, preferisco fare una top 5 dei libri che mi sono rimasti più impressi e a cui ripenso spesso piuttosto che riassumere quelli a cui ho dato cinque stelle.

  1. A Little Life di Hanya Yanagihara
  2. La porta di Magda Szabó
  3. Le cose che abbiamo perso nel fuoco di Mariana Enriquez
  4. Epepe di Ferenc Karinthy
  5. Simon vs. the Homo Sapiens Agenda di Becky Albertalli

Per il resto: ho letto 48 libri, di cui 25 in inglese e 23 in italiano. Escludendo due antologie di autori vari, ho letto 25 autrici e 21 autori. Sono contento anche del pizzico di varietà in più rispetto se non altro all’anno scorso: ho letto scrittori/scrittrici indiani, pakistani, nigeriani, ungheresi, francesi, belgi, catalani, argentini, cinesi, giapponesi, tedeschi, austriaci. Ho letto dieci romanzi e almeno due raccolte con personaggi LGBTQ+. Ho riletto Il cardillo addolorato, che probabilmente sarà il primo articolo dell’anno nuovo.

Uno dei propositi da lettore per il 2019 è di non farmi dirottare troppo dalle novità che sono sulla bocca di tutti, anche perché trovo spesso più soddisfacente leggere libri che ho in lista da un sacco di tempo, a prescindere se finiscano per piacermi o meno.

Detto questo, ci sono diversi libri che aspetto per il 2019. A gennaio esce Gli scomparsi di Chiardiluna, il seguito di Fidanzati dell’inverno, e a febbraio torna in libreria l’autrice di All the Birds in the Sky, Charlie Jane Anders, con The City in the Middle of the Night.
Tra gli altri incerti ritorni: forse The Secret Commonwealth, il seguito di La Belle Sauvage, vedrà luce a fine anno? A quando le ultime fatiche letterarie di VanderMeer (Hummingbird SalamanderDead Astronauts, ambientato nello stesso mondo di Borne, e la serie young adult Jonathan Lambshead and the Golden Sphere)? Possiamo davvero riporre speranze in un’uscita di The Winds of Winter entro l’anno prossimo?

Ma i libri per cui sono più in fibrillazione hanno date ben precise:

  1. Il 15 gennaio esce You Know You Want This, il debutto di Kristen Roupenian, l’autrice del racconto virale del 2017, Cat Person. Ha rapito anche me e ho aspettative molto alte per questa raccolta.
  2. Il 5 febbraio si comincia con Black Leopard, Red Wolf, primo di una trilogia fantasy dalla penna di Marlon James, vincitore nel 2015 del Man Booker Prize con A Brief History of Seven Killings. Descritto come il Game of Thrones africano, promette benissimo e dalla sua ha anche una fantastica copertina.
  3. Il 5 marzo torna in libreria Helen Oyeyemi con Gingerbread, storia di una madre e di una figlia e della loro ricetta segreta del marzapane. Di Oyeyemi, di cui in Italia è stato pubblicato Boy, Snow, Bird da Einaudi, non ho ancora letto tutto, ma come il mio amore per What Is Not Yours Is Not Yours rispetto a White is for Witching dimostra, se possibile preferisco proseguire con i nuovi libri anziché recuperare tutti i vecchi.

Infine, una riflessione sul blog. Come dicevo all’apertura, sono dieci anni (anzi, undici e mezzo!) che scrivo i miei pareri sui libri, prima su aNobii e poi su Goodreads. Sono contento di essermi deciso ad aprirlo: mi piace avere un contenitore dove dilungarmi a parlare di libri.

Allo stesso tempo, però, ho capito anche che mi piace buttare giù due righe senza troppi pensieri, che siano appunti su un diario o un commento al volo su Goodreads (è un brutto vizio, altrimenti i libri mi sembra di non averli neanche letti).
Non è per dire che il blog sta già chiudendo, bensì che d’ora in poi scriverò recensioni strutturate solo per i libri di cui voglio assolutamente dire qualcosa. Insomma, più tempo libero per fare altro.
Tipo leggere.

Le cose che abbiamo perso nel fuoco: il macabro da una posizione scomoda

Le cose che abbiamo perso nel fuocoDodici racconti macabri ambientati a Buenos Aires e dintorni, dove il degrado e il sovrannaturale si incontrano: tossici e case infestate, corruzione e leggende metropolitane, persone scomparse e superstizione.
È una combinazione insolita perché l’horror non tocca spesso problemi sociali, fisici, mentali o la politica. Il pregio di Enriquez, invece, è proprio quello di mettere il lettore in una posizione scomoda, di costringerti a guardare dall’alto di una posizione privilegiata i barboni che vivono su pezzi di cartone vicino la stazione e i tossici che ti urlano dietro per strada se non hai spiccioli da dargli.

Nel Bambino sporco la protagonista abita nella vecchia villa dei nonni a Constitutión, un quartiere di Buenos Aires un tempo sinonimo di ricchezza, che ora per chi non è avvezzo nasconde pericoli dietro ogni angolo. Davanti la villa, vivono una donna tossica incinta insieme al figlio di cinque anni.

«Io non dico niente. Però qui nel quartiere dicono che per i soldi fa qualsiasi cosa, va addirittura ai raduni degli stregoni.»
«Dai, Lala, gli stregoni. Gli stregoni non esistono, non credere a tutto quello che senti.» […]
«Cosa vuoi sapere tu di quello che succede davvero da queste parti, tesoro mio. Tu vivi qui, ma vieni da un altro mondo.»

Nella Casa di Adela la protagonista, il fratello e l’amica Adela, una ragazzina viziata, sono sempre più attirati da una casa abbandonata. Potrebbe essere una classica storia di fantasmi (tra l’altro eseguita magistralmente), ma ad Adela manca un braccio.
Questo faccia a faccia continuo raggiunge il suo apice nel racconto che dà il titolo alla raccolta, Le cose che abbiamo perso nel fuoco, dove una ragazza sfigurata bacia i passeggeri della metro.

Il suo sistema era audace: saliva sul vagone e salutava i passeggeri con un bacio se non erano molti, se la maggior parte viaggiava seduta. Certi allontanavano la faccia con aria schifata, persino con un grido soffocato; altri accettavano il bacio per sentirsi a posto con se stessi; altri ancora si limitavano a farsi venire la pelle d’oca per il disgusto, e se lei se ne accorgeva, d’estate, quando poteva vedere i loro peli, accarezzava con dita sudicie i peletti spaventati e sorrideva con quella bocca che era uno squarcio.

Las cosas que perdimos en el fuegoI colpi di scena non saranno sempre dei più sconvolgenti (come nelle due discese verso la follia di Pablito inchiodò un chiodino, dove una guida turistica comincia a vedere durante i suoi tour dell’orrore il fantasma di un serial killer argentino, e Zero carne su di noi, dove una donna raccoglie un teschio per strada), ma tutti i racconti riescono a evocare un’atmosfera inquietante, che si parli di una ragazzina insignificante che da un giorno all’altro si strappa le unghie con i denti (La fine della scuola), di un tale rinchiuso in camera ossessionato dal deep web (Verde rosso arancione) o di una procuratrice distrettuale che per incastrare un poliziotto finisce in una borgata apparentemente deserta vicino a un fiume inquinato (Sotto l’acqua nera).

Il più delle volte gli uomini sono deboli, vili, non accettano ciò che è fuori dall’ordinario e in un modo o nell’altro ne risultano sconfitti. È il caso di Juan Martìn (Ragnatela), un marito “irritante e noioso”, e Miguel (Il cortile del vicino), che non crede né alle malattie mentali né ai colpi che Paula sente alla porta di notte.

Pensava che un alcolizzato potesse smettere di bere e un’anoressica potesse riprendere a mangiare, se davvero lo volevano. Stava facendo un grandissimo sforzo, e glielo disse guardando il pavimento, per accettare il fatto che lei andasse dallo psichiatra e prendesse delle pillole, perché credeva che quelle cose non servissero a niente, sarebbe guarita da sola, era normale essere triste dopo i problemi che aveva avuto sul lavoro.
«Il fatto è che non sono soltanto triste, Miguel» gli aveva risposto lei, fredda e imbarazzata, imbarazzata per la sua ignoranza, e poco disposta a tollerarla.
«Lo so, lo so» disse lui.

Le donne, invece, cedono alle stranezze quasi di propria spontanea volontà, che sia la dipendenza da droghe (Gli anni strafatti) o una vendetta in un hotel con un oscuro passato (L’Hostería). Ma l’esempio per eccellenza è Le cose che abbiamo perso nel fuoco, dove in risposta a una serie di femminicidi le donne cominciano a darsi fuoco da sole per non lasciare agli uomini la possibilità di rovinarle, per creare magari una “bellezza nuova”.

«Sono gli uomini a fare i roghi, piccola. Ci hanno sempre bruciato. Ora ci bruciamo da sole. Non per morire, ma per mostrare le nostre cicatrici.»

Non è un orrore astratto: Enriquez prende idee che ormai fanno parte dell’immaginario collettivo e le inserisce in una cornice moderna, anche con letture in chiave politica. Sono racconti che ti adescano con situazioni e paesaggi familiari, salvo poi fare luce sulle zone d’ombra, i dettagli che per quieto vivere e per non metterti in discussione preferisci ignorare.

Mariana Enriquez, Le cose che abbiamo perso nel fuoco (trad. Fabio Cremonesi) (2016). Marsilio (2017), 199 p.