Uprooted: il cuore oscuro del Bosco

uprootedIn cambio della protezione dal Bosco, ogni dieci anni il Drago sceglie una ragazza del villaggio per portarla nella sua torre a fargli da serva. Kasia è cresciuta tutta la vita con la convinzione di essere la prossima, invece è Agnieszka a essere presa. Agnieszka non sarà bella e brava come Kasia, ma è una strega e diventa inaspettatamente la chiave nella lotta contro il Bosco.

Our Dragon doesn’t eat the girls he takes, no matter what stories they tell outside our valley. We hear them sometimes, from travelers passing through. They talk as though we were doing human sacrifice, and he were a real dragon. Of course that’s not true: he may be a wizard and immortal, but he’s still a man, and our fathers would band together and kill him if he wanted to eat one of us every ten years. He protects us against the Wood, and we’re grateful, but not that grateful.

Uprooted è altalenante. Non che non si sia meritato la vittoria del Nebula e del Locus nel 2016, ma avrebbe potuto essere progettato ed eseguito meglio.
Promuovo a pieni voti i battibecchi tra Agnieszka e il Drago, l’inquietante presenza del Bosco, la conclusione, la concezione della magia e come i modi opposti di fare magia dei due protagonisti si amalgamino, ma il resto lascia un po’ a desiderare.
Tipo:

  • cuore oscuroAgnieszka è una testa calda, è maldestra, è indisciplinata, però per la velocità con cui diventa un fenomeno di strega si avvicina pericolosamente al territorio delle Mary Sue;
  • nel cuore del romanzo c’è la grande amicizia con Kasia, di cui si ha prova solo in un’occasione perché l’autrice ce la racconta soltanto, senza mostrarla;
  • è un problema che si riflette su tutti i personaggi al di fuori del Drago: Agnieszka ci tiene alla sua famiglia e al suo villaggio, ma l’autrice non ci dà nessuna ragione per cui anche a noi dovrebbe importarcene qualcosa;
  • problema che a sua volta si estende anche sull’ambientazione, che da una parte è il tanto apprezzato fantasy che si rifà al folklore polacco e russo, ma dall’altra è il generico fantasy medievaleggiante da sbadiglio;
  • l’interesse amoroso è un po’ buttato lì;
  • avrei gradito qualche variazione in più sul tema purificazione del Bosco per non cadere nell’effetto videogioco, e più in generale che il romanzo si prendesse il suo tempo quando doveva (approfondimento iniziale dei personaggi, tutta l’affrettatissima seconda parte) e che tagliasse corto quando poteva (Agnieszka spesso e volentieri lasciata sola a se stessa).

È un romanzo carino, affossato da fretta e approssimazione, ma con una marcia in più grazie alla magia e alla minaccia del Bosco.

Naomi Novik, Uprooted. Del Rey (2015), 448 p.
Cuore oscuro (trad. Manuela Carozzi). Mondadori (2017), 432 p.

All the Birds in the Sky: generi e personaggi diversi si incontrano

all the birds in the skyGià da bambini Patricia e Laurence sono due emarginati: lei sa parlare con gli animali e tutti credono che sia strana, Laurence invece è un nerd e costruisce una macchina del tempo che lo porta avanti di due secondi per difendersi dai bulli. Per quanto con interessi opposti, le loro strade si intrecciano in più occasioni. Su di loro c’è anche una profezia, ma in fondo chi crede alle profezie?

Vincitore nel 2017 del Nebula e del Locus, All the Birds in the Sky è una lettura insolita che sfida a farsi etichettare. Da un lato Patricia è una strega dotata di poteri magici, dall’altro Laurence è un bambino prodigio in grado di creare un’intelligenza artificiale. Da un lato il fantasy, dall’altro la fantascienza.
Non solo: l’autrice non si sforza di rendere plausibile il lato scientifico (come la guida per costruire la macchina del tempo trovata su internet) e regala momenti comici quasi demenziali (come l’introduzione di Theodolphus), ma questo non le impedisce di rendere realistico e serio tanto il rapporto tra i due protagonisti quanto la minaccia apocalittica che si troveranno ad affrontare.

She still wasn’t sure where she stood with Laurence. They’d hung out, furtively, a few times since their lunch in the library. But Patricia felt like both she and Laurence knew, in the deepest crevices of their hearts, that they would each ditch the other in a second, if they had a chance to belong, really belong, with a group of others like themselves.

Si potrebbe obiettare che ci sia troppa carne al fuoco e che ne risentano particolarmente i personaggi secondari, appena abbozzati. Poco importa, perché alla fine tutti i nodi vengono al pettine e per contrasto Patricia e Laurence sono in risalto.
All the Birds in the Sky appassiona, diverte e commuove, il tutto senza prendersi troppo sul serio.

Charlie Jane Anders, All the Birds in the Sky. Tor Books (2016), 320 p.

Among Others: andare avanti dopo un’avventura fantasy

Among OthersAmong Others racconta la storia dopo la grande battaglia: sconfitta la madre e persa la sorella, Morwenna viene mandata dal padre e dalle zie a studiare in un collegio femminile.

Quello che leggiamo è il diario di una qualunque ragazzina vorace lettrice di fantascienza negli anni Settanta, se non fosse per gli accenni a incantesimi e fate. È questo il punto di forza e allo stesso tempo il tallone d’Achille del romanzo: il grosso del diario contiene commenti sui libri e l’azione e l’interazione con altri personaggi per tre quarti della storia scarseggiano; d’altra parte è proprio grazie al contrasto con l’ordinario che un incontro con una fata o un ragazzo lascia il segno.

Frodo lost a finger, and all his own possibility of happiness. Tolkien understood about the things that happen after the end. Because this is after the end, this is all the Scouring of the Shire, this is figuring out how to live in the time that wasn’t supposed to happen after the glorious last stand. I saved the world, or I think I did, and look, the world is still here, with sunsets and interlibrary loans. And it doesn’t care about me any more than the Shire cared about Frodo.

Un altro mondoÈ più probabile che venga apprezzato dagli amanti della fantascienza classica. A me, che al più conosco di nome e non quanto basta, i tanti autori citati hanno lasciato indifferente, ma mi ha fatto molto piacere che per la ricerca degli amici Morwenna parli di karass, dal Bokonism di Cat’s Cradle.
Per quanto riguarda il lato fantastico, le fate ambigue e gli incantesimi che agiscono a posteriori danno alla magia un aspetto pericolosamente reale e complesso. L’unica eccezione è la madre, strega cattiva bidimensionale dall’inizio alla fine.

Among Others mette una gran nostalgia di un’epoca in cui il tempo libero è tutto dedicato a divorare libri e a scrivere fiumi di parole, e lo fa raccontando una storia fantasy con un approccio insolito.

Jo Walton, Among Others. Tor Books (2011), 302 p.
Un altro mondo (trad. Benedetta Tavani). Gargoyle Books (2013), 334 p.

Nel viaggio del tempo che vorrei: To Say Nothing of the Dog

to say nothing of the dogIn un 2057 in cui viaggiare nel tempo è riservato esclusivamente agli storici in qualità di osservatori, la missione di Ned non è poi così essenziale: Lady Schrapnell vuole ricostruire la cattedrale di Coventry così com’era prima del bombardamento del 1940 e manca solo il vaso del vescovo, oggetto tra l’altro particolarmente importante nella storia familiare di Lady Schrapnell perché la vita della sua antenata è cambiata per sempre quando l’ha visto nell’estate del 1888. Il vaso però sembra essere scomparso durante il bombardamento, e Ned, che a forza di viaggi nel tempo è affetto dal time-lag e dovrebbe ritagliarsi qualche settimana di riposo prima di riprendere a viaggiare, viene mandato proprio nel 1888. La scusa è quella di fuggire dalle grinfie di Lady Schrapnell, ma in realtà deve portare a termine una missione che non è chiara nemmeno a lui.

to say nothing of the dogTo Say Nothing of the Dog è il secondo libro nella serie dei viaggiatori del tempo di Oxford ed è l’esatto opposto del suo predecessore, Doomsday Book. Se il primo è una tragedia, il secondo è una commedia, scritta per compensare agli orrori del primo. In quanto a premi e visibilità Doomsday Book è in vantaggio, dato che To Say Nothing of the Dog si è accaparrato “solo” Hugo e Locus nel 1998 e di una traduzione italiana non c’è traccia. Tra i due ho comunque preferito questo su tutta la linea.

Chi mi conosce sa che amo le storie di viaggi nel tempo e di fantasmi. Per quanto le ami, però, sono molto schizzinoso e finisco sempre per leggerne meno di quante vorrei. Oltre a contenerle entrambe, To Say Nothing of the Dog è ricco di omaggi alla letteratura inglese dell’Ottocento e del Novecento, da Jerome K. Jerome ad Agatha Christie, da Lewis Carroll a Arthur Conan Doyle.
Il viaggio nel tempo non è solo una scusa per far visitare a personaggi del futuro un’epoca passata, ma dà il via a una trama complicata con rischi di paradossi e situazioni divertenti. È una gioia da seguire. Niente è lasciato al caso, alla fine anche il più piccolo tassello torna al suo posto e ogni filo narrativo viene chiuso con un bellissimo fiocco.

Non mi capitava da un sacco di innamorarmi di un libro. Se queste parole e i premi che ha vinto non bastano a convincerti, posso riassumerlo così: To Say Nothing of the Dog è Interstellar se l’avesse diretto Hitchcock.

Connie Willis, To Say Nothing of the Dog (1997). Orion Publishing Co (2013), 528 p.

Doomsday Book: il libro degli irreperibili

Doomsday bookPersino in un 2054 in cui viaggiare nel tempo è possibile, avventurarsi nel Medioevo è pericoloso e non è mai stato fatto prima. Poco possono le raccomandazioni del professor Dunworthy: Kivrin è una studentessa determinata e il suo sogno è vedere una messa di Natale dell’epoca. Così arriva nel quattordicesimo secolo come da programma, ma viene subito colta da una febbre delirante. Gli stessi sintomi li presenta Badri, il tecnico che si occupa delle coordinate spazio-temporali. Oxford viene presto messa in quarantena e Dunworthy non riesce a capire dove e soprattutto quando sia finita Kivrin.

Doomsday Book è il primo libro della serie dei viaggiatori nel tempo di Oxford (serie che, a parte per questo libro tuttora fuori stampa, è inedita in Italia). Nel 1992 e nel 1993 è valso a Connie Willis i premi più prestigiosi per una scrittrice di fantascienza, Hugo, Nebula e Locus. Se non si ha la tenacia necessaria per arrivare alla fine, o perlomeno per superare le prime quattrocento pagine, è difficile credere che non ci fossero altri libri più meritevoli di vincere.

Doomsday Book ha molti difetti. Per snocciolarli parto dal presupposto che il riassunto del primo paragrafo e l’epoca in cui si svolge la vicenda lascino intendere qual è la grande rivelazione che arriva solo alla fine della seconda parte, anche perché, perlomeno nella mia edizione, è detto chiaramente in copertina. Anzi, temo che senza questa anticipazione un lettore più impaziente lascerebbe perdere molto prima. Insomma, seguono spoiler a fin di bene.

the doomsday bookKivrin finisce per sbaglio nel 1348, all’alba della Peste Nera. Lo slippage (la variabile per cui la rete sposta le coordinate temporali e spaziali per evitare paradossi) non si estende mai oltre i cinque anni, e c’è una ragione per questo slittamento di trent’anni. La maggior parte dei difetti di Doomsday Book, infatti, hanno una giustificazione nel libro, ma sono molto più comprensibili se si considera dove la Willis voleva andare a parare.
Il libro traccia un parallelo tra le due epoche, la Oxford del futuro e il paesino inglese del passato, entrambi messi in ginocchio da un’epidemia che sembra impossibile contenere. Lo scopo primario dell’epidemia nel futuro è però di dare la possibilità a lei come autrice di indagare un periodo storico terribile, in cui difficilmente Kivrin, che già di suo è alle prime armi e non dovrebbe essere spedita nel Medioevo con tanta leggerezza, andrebbe di proposito. La Willis avrebbe avuto la stessa possibilità se Kivrin, pensata come un personaggio diverso, fosse andata nel 1348 con l’intenzione di studiare la Peste Nera dal vivo, ma non ci sarebbero stati un percorso di crescita e un forte impatto emotivo, il passaggio da un Medioevo idealizzato alla cruda realtà dei fatti.
Così com’è, senza la quarantena nel futuro, Kivrin verrebbe soccorsa subito. Serviva perciò un diversivo, da cui il parallelo non essenziale e la colossale perdita di tempo dei capitoli di Dunworthy.

Mi incuriosisce sempre vedere il futuro visto dal passato (qui un esempio molto spassoso): il 2054 della Willis negli anni Novanta a quanto pare concepisce le videochiamate, ma non i cellulari e le segreterie. Per due terzi del romanzo c’è gente che chiama e gente che non risponde, gente che chiede un telefono e gente che manda a chiamare altra gente.
Inoltre Badri, l’unica persona in grado di dire il fix (il dato preciso di dove e quando Kivrin si trova necessario per poterla riportare nel futuro), è ammalato e ogni volta che sta per svelare cos’è successo perde i sensi o delira.

Badri put his hand up to his forehead. “There’s something wrong,” he said.
“What?” Dunworthy shouted. “Slippage? Was there slippage?”
“Slippage?” he said, shivering so hard he could hardly get the word out.
“Badri,” Mary said. “Are you all right?”
Badri got the odd, abstracted look again, as if he were considering the answer.
“No,” he said, and pitched forward across the console.

Sono evidentemente solo espedienti per allungare il brodo e far procedere entrambe le linee temporali di pari passo.

Abito da medico della peste
L’abito da medico della peste raffigurato nella copertina per la serie SF Masterworks. Peccato sia stato inventato nel 1619. Un anacronismo perdonabile.

Gli stratagemmi per tenere Kivrin nel passato non saranno dei più brillanti, ma in compenso la storia di Kivrin è fantastica. Accolta e accudita in un maniero, conosce poco a poco le persone del posto. Si affeziona a una bambina, Agnes, e a sua sorella, Rosemund, promessa in sposa a un uomo viscido, e trova in Padre Roche, inizialmente preso con un bandito, un sostegno inatteso.
Kivrin è preparata e ingegnosa, ma non vuol dire che il viaggio nel tempo fili liscio. Alla faccia di soluzioni semplici come il traduttore universale della Tardis di Doctor Who, l’interprete di Kivrin ci mette un po’ ad adattarsi all’inglese vero del quattordicesimo secolo, svelando a Kivrin l’ennesimo errore nel passaggio dalla teoria alla pratica (altre sorprese: la sporcizia e la puzza).

Mr. Dunworthy had told her she might not be able to depend on the interpreter, that she had to take lessons in Middle English and Norman French and German. He had made her memorize pages and pages of Chaucer. “Soun ye nought but eyr ybroken And every speche that ye spoken.” No. No. “Where is this village you have brought me to?” What was the word for village?

Molto spesso Kivrin ripete informazioni di storia per capire come agire o per fare un confronto tra le informazioni dedotte dagli storici e quello che si trova davanti. I suoi pensieri saranno anche infodump, ma li ho accolti volentieri come una rispolverata di storia. Non mi ha mai interessato granché il Medioevo, specialmente in quanto vaga ambientazione preferita dagli scrittori fantasy, ma sotto questa luce l’ho trovato affascinante.
Si calcola che la Peste Nera abbia ucciso un terzo della popolazione europea. È un dato freddo che dopo tutto questo tempo si riduce a una mera discussione in termine di numeri e statistiche. Invece Kivrin, ritrovandosi nel mezzo della pandemia, capisce che prima dei numeri c’erano delle persone e cerca di fare il possibile per salvarle. La violenza di una malattia per cui nel 1348 non c’è rimedio e la benevolenza di Kivrin costituiscono una tragedia che non lascia indifferenti.

Doomsday Book si perde per metà in un bicchier d’acqua, mentre per il resto è un libro molto bello che nell’atto finale dà il meglio di sé.
Consiglio di lettura: se non hai scrupoli di questo tipo, puoi tranquillamente leggere il primo capitolo con Dunworthy e poi saltarli tutti fino alla terza parte. Sarà un’esperienza molto più gratificante e non avrai nessun dubbio che si è meritato tutti i premi che ha vinto.

Connie Willis, Doomsday Book (1992). Orion Publishing Co (2012), 608 p.
L’anno del contagio (trad. Annarita Guarnieri). Editrice Nord (1994), 574 p.

The Goblin Emperor: un amabile protagonista

The Goblin EmperorL’imperatore degli elfi e quasi tutti i suoi figli maschi muoiono in un incidente su un dirigibile. Il diretto erede al trono è Maia, diciottenne, orfano di madre, per metà goblin, relegato lontano dalla corte e alla mercé di un cugino violento. Quando arriva a corte non ha amici né alleati, non conosce le faccende di corte né gli affari politici in cui presto ha voce in capitolo. Deve imparare a fare l’imperatore tra familiari e dipendenti estranei e ostili. In più, deve trovarsi una sposa e avviare le indagini sulla morte del padre e dei fratellastri.

Il protagonista e unico punto di vista è Maia, il che permette all’autrice di introdurre sia lui che il lettore a un mondo nuovo. Non si va quasi mai oltre, e a parte le rare occasioni sociali a cui Maia partecipa il grosso della narrazione è circoscritto alla routine giornaliera dell’imperatore: essere condotto da qualche parte dal segretario con le guardie al seguito, ascoltare le udienze, prendere decisioni.
Poco male, perché Maia è amabile. La sua bontà è una lotta continua tra la scelta facile e la scelta giusta, tra i veri sentimenti che prova e le restrizioni del ruolo che ricopre.

L’ambientazione è un diciannovesimo secolo fantasy dal retrogusto steampunk. Per me gli elfi sono quelli immortali ed eterei tolkieniani e i goblin sono i banchieri rowlinghiani, qui invece c’è un’interpretazione piacevolmente diversa.
Gli elfi sono bianchi, magri, con capelli chiari e occhi verdi o blu, i goblin sono neri, robusti, con capelli scuri e occhi gialli o rossi, ma non sono di due specie diverse, entrambi hanno orecchie espressive che tradiscono tanto quanto uno sguardo, e gli ibridi come Maia hanno un colorito grigio.

La lingua merita un discorso a parte. Nell’inglese dei reali ci sono il plurale maiestatis e un registro più alto tipico della lingua scritta, quindi sono banditi i verbi frasali e le preposizioni a fine frase. L’inglese informale per la struttura e la scelta dei vocaboli è più vicino a quello moderno, se non fosse per l’uso di forme shakespeariane (thou al posto di youart al posto di are ecc). Do una pacca sulla spalla a chi avrà il compito di tradurlo in italiano.

“Who is’t?” At least he did not sound any drunker than he had a quarter hour ago.
“Maia. May I—?”
The door opened with savage abruptness, and Setheris stood in the opening, glaring. “Well? What chews on thy tail, boy?”
“Cousin,” Maia said, almost whispering, “what must I do?”
“What must thou do?” Setheris snorted laughter. “Thou must be emperor, boy. Must rule all the Elflands and banish thy kindred as thou seest fit. Why com’st thou whining to me of what thou must do?”
“Because I don’t know.”

Il vero dramma, più per il lettore che per un possibile traduttore, è la lingua elfica (e in misura molto minore quella dei goblin). Non perché si parli elfico, bensì per tutti i nomi di persone, posti, usanze, cariche e compagnia bella: l’effetto è spaesante e a fine lettura credo di poter scrivere solo i nomi di quattro personaggi senza controllarli. I valletti e le guardie del re sono rispettivamente edocharei e nohecharei, un alto titolo nobiliare è Dach’osmer e il tempio ufficiale della corte si chiama nientemeno che Untheileneise’meire (qui un glossario parziale realizzato da un fan). La soluzione per me è stata andare a naso e identificare alcuni personaggi più per il ruolo che per il nome.

Fan art di Maia
Fan art di Maia realizzata da Sarah LuAnn Perkins

Fantasy di questo tipo sono spesso frustranti perché con la scusa di non essere mai ambientati in un ventunesimo secolo alternativo ripropongono vecchi schemi mentali e una visione limitata della realtà. Del tipo: è fantasy, quindi è ovvio che tutti i personaggi sono bianchi e eterosessuali, che gli uomini sono gli eroi e le donne vengono considerate come capaci solo di mettere al mondo figli.
The Goblin Emperor è un’eccezione. Questo non vuol dire che si parte da una realtà dove tutti sono considerati uguali, ma il lieve razzismo nei confronti di un imperatore non bianco, accenni di personaggi non eterosessuali (più di uno!) e donne che aspirano a qualcosa di diverso dal ruolo di moglie e madre ci ricordano che la narrativa di genere non dev’essere per forza un’evasione dalla realtà, ma anzi, può parlare perfettamente del nostro tempo.

Non aspettatevi un romanzo da leggere tutto d’un fiato per scoprire come va a finire, ruota tutto attorno al percorso del protagonista e all’ambientazione. A me la fine ha scaldato il cuore. E poco prima della fine ho avvertito una fitta al pensiero che stavo per abbandonare questi personaggi (non disperiamo, ché pare che potrebbero esserci altri romanzi ambientati nello stesso mondo).
The Goblin Emperor è davvero qualcosa di speciale.

Katherine Addison, The Goblin Emperor. Tor Books (2014), 448 p.